The China Mail - Gaza com'era, un western tra passato e presente

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Gaza com'era, un western tra passato e presente
Gaza com'era, un western tra passato e presente

Gaza com'era, un western tra passato e presente

Dei fratelli palestinesi Nasser, strizza l'occhio a Sergio Leone

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(di Giorgio Gosetti) Il titolo richiama Sergio Leone e Quentin Tarantino; lo stile riecheggia con un pizzico di sfrontata ironia lo spaghetti western; personaggi e panorami rimandano alla crudele realtà di questi giorni. "C'era una volta Gaza", diretto dai due fratelli palestinesi Arab e Tarzan Nasser e presentato oggi a Un Certain Regard, è un film felicemente spiazzante, tutto il contrario di ciò che ci potremmo attendere dai diari di chi è cresciuto e vissuto sulla Striscia di Gaza. La proiezione odierna ha infiammato la Croisette, confermando la realtà e la vitalità di una cinematografia che, pur tra mille difficoltà, non rinuncia ad esprimere uno stile e un'incrollabile voglia di resistere e vivere. La storia strizza l'occhio - a suo modo - a "Il Buono, il Brutto, il Cattivo": nella Striscia del 2007 si arrabattano un ragazzo pieno di sogni ma con lo sguardo segnato da un'invincibile malinconia e il suo dinamico e carismatico compagno d'avventura, un leader nato. È il secondo, Osama, che lo coinvolge in un piccolo traffico di stupefacenti usando per copertura la vendita dei falafel. Il giovane, gracile studente Yahya accetta, pur tra mille preoccupazioni e alla fine pensa che è anche questo un modo per sopravvivere, finché non si mette di mezzo un poliziotto corrotto che vuole la sua parte nella vicenda. "Oggi quel titolo che nacque quasi per scherzo - dicono Arab e Tarzan, due omaccioni sorridenti e dalla simpatia contagiosa - suona drammaticamente attuale perché la Gaza che abbiamo conosciuto e in cui siamo cresciuti non esiste letteralmente più. Ma il progetto, com'è nostro costume, si è sviluppato nel tempo, abbiamo cominciato a scriverlo e idearlo già nel 2015, due anni dopo il debutto a Cannes con il cortometraggio "Comdom Lead". "Il soggetto del film - spiegano - nasce dall'ispirazione costante che genera la nostra città. È la natura umana che fa sì che laggiù, nonostante l'occupazione, lo stato d'assedio e le condizioni inumane che le persone sono costrette a sopportare da decenni, sia l'umanità a prevalere sempre e a dare senso alla vita. Noi due ogni volta cerchiamo di fare solo del buon cinema. Ma a Gaza e in generale in Palestina è davvero difficile sfuggire alla politica perché è questa a controllare tutto, la vita quotidiana della gente è condizionata da tutto questo. Eppure all'inizio noi due volevamo solo fare un western alla nostra maniera". Nati nel 1988, approdati dietro alla cinepresa quasi per caso, senza nessuna scuola ma con una grande passione per la moda e l'arte ("costruiamo da noi buona parte di ciò che si vede sullo schermo - dicono - ci ingegniamo a rendere bello ciò che si vede sullo schermo"), i fratelli Nasser confessano che dopo il massacro del 7 ottobre e tutto ciò che ne è seguito per cinque mesi non sono più riusciti a pensare al film, restando in contatto con la loro gente grazie al telefono o ai radi filmati delle troupe televisive. Poi si sono decisi: "Va bene - ci diamo detti - dobbiamo andare avanti, rivedere la sceneggiatura e finire il film perché la morale del racconto è che la storia si ripete e che la gente di Gaza, nonostante non abbia scelta, orizzonti, sogni, non si arrende comunque. Vuole andare avanti e questa diventa inevitabilmente la morale politica del nostro lavoro: una storia di sopravvivenza". Dopo il debutto, Arab e Tarzan Nasser sono diventati dei beniamini dei festival internazionali, passando al lungometraggio nel 2015 con "Degradé" (visto a Cannes) e poi con "Gaza mon Amour" selezionato a Venezia nel 2020. Il loro metodo di lavoro - grande cura dei dettagli, centinaia di film visti per formare il gusto, spirito d'impresa e di colleganza per far fronte alle difficoltà finanziarie che oggi comporta fare cinema in Palestina - obbliga a lunghe attese tra un film e l'altro, ma la prossima idea è già in cantiere: la storia di tre donne, ancora una volta ambientata nella loro città, per raccontare attraverso l'incrocio di tre vite quel desiderio di riscatto e di vita che nella tragicommedia "C'era una volta a Gaza" trabocca da ogni inquadratura. Per domani è prevista una grande festa in loro onore, con accompagnamento musicale a sorpresa, nel Padiglione palestinese del Marché du Film dove campeggia, come emblema di una cinematografia e di una comunità, un enorme papavero rosso, simbolo di speranza, di allegria, di vita.

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E.Choi--ThChM